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CRESCERE INSIEME


Progetto Genitori 4.0

Buongiorno dottoressa, mi ha molto colpito la sua frase finale (n.d.r. con cui si conclude il primo articolo di questo nuovo spazio, che si può leggere interamente qui ) in cui invita i genitori a non dimenticare se stessi.

Io ho un bambino di due anni, e spesso ho l’impressione di annullarmi per lui.

Percepirà la mia incapacità di fare qualcosa per me? Quanto lo sto influenzando nel carattere?

Ringraziandola e rimanendo a disposizione, la saluto e le auguro un buon weekend.

Marta da Bologna




Cara Marta, tieni conto che negli anni pre-linguaggio il bambino non ha la capacità di ragionare in senso astratto, perché è il linguaggio che fa da mediatore, permettendo di “mentalizzare” gli aspetti ricorrenti della realtà, cioè dando un nome alle cose che incontra, siano esse elementi concreti, relazioni di causa-effetto, emozioni. Il bambino ovviamente prova emozioni, ma non le sa mentalizzare, cioè non le sa descrivere a sé stesso perché non le sa nominare attraverso il linguaggio. Noi infatti, apprendiamo prima a parlare, poi a pensare, non viceversa come saremmo portati a credere… perché il pensiero richiede la capacità di nominarsi mentalmente le cose.

Questo per dire che ciò che impatta sul bambino in questi primi anni, è la COSTANZA nelle risposte del caregiver (in questo caso la madre). Il piccolo infatti deve costruire nella propria mente un insieme complesso di relazioni causali che gli permettano di comprendere il funzionamento di ciò che lo circonda e con questo interagire, generando un’influenza: banalmente, se piangendo ottiene una risposta della madre che lo soddisfa, non solo impara a interpretare, attraverso il rispecchiamento materno, le sue stesse emozioni, ma impara che i suoi comportamenti esercitano un’influenza in una certa direzione e questo lo fa sentire via via efficace e influente (“agentivo” sull’ambiente). Tutto ciò costruisce nel tempo, non solo la sua autostima, generata dall’amore materno nell’interpretare i suoi segnali con attenzione, ma anche la sua autoefficacia, data dal sentirsi influente sul contesto.

Non dobbiamo pensare che i piccoli di quest’età facciano ragionamenti complessi, ma dobbiamo immaginare la loro mente – citando Lacan – come “insieme di significanti in cerca di significato”, cioè piccoli individui con un potenziale di attribuzione di SENSO, che attraverso il rispecchiamento materno hanno la possibilità di dare un nome alle cose e crearsi il data base mentale delle relazioni causali (= di senso) che governano la sua vita. Questa prevedibilità nell’ambiente circostante è ciò che permette al bambino di crescere sicuro di sé, perché ha intorno un ambiente affettivamente stabile e prevedibile. È viceversa assai dannoso per un piccolo di 0-3 anni, avere una risposta materna incostante e incoerente, come è il caso delle madri depresse o troppo centrate su di sé per essere realmente in ascolto del figlio. Il bambino in questo caso non ha la possibilità di sperimentare alcuna prevedibilità e, in risposta a ciò, si distacca emotivamente come a voler rinunciare ad una relazione che non percepisce come rispondente e rassicurante.

Tutto ciò per confortarla: il fatto di donarsi totalmente a un bambino di questa età è un meccanismo assolutamente naturale e funzionale alla sua stabilità psichica presente e futura. Purché ovviamente questo non generi in lei una frustrazione che le impedisca di essere in relazione con atteggiamento autenticamente partecipe e proattivo. Altro discorso è, invece, riuscire a ritagliarsi dei momenti per sé, per curare la propria Persona e il proprio essere Donna oltre che Madre; aspetto questo sacrosanto e raccomandabile, non solo per la sua stabilità emotiva ma anche per la sopravvivenza della coppia affettiva, che tipicamente, al netto del primo momento di entusiasmo, subisce un forte shock dalla nascita di un figlio. Il mio suggerimento in tal senso è che padre e madre si alternino nella cura del piccolo, sia per liberare tempo alla madre sia per creare tra voi un’alleanza co-genitoriale che in futuro vi permetterà di essere davvero una squadra educativa, soprattutto al varco dell’adolescenza. Perché per affrontare serenamente questo difficile passaggio, specie in una società complessa e disintermediata come quella attuale, occorre una stabilità individuale e di coppia rodata nel tempo. Per questo ogni dettaglio è significativo, dal dare la pappa al cambiare il pannolino, dal bagnetto ai momenti di gioco.

Uomini e donne hanno infatti un modo intimamente e fisicamente diverso di entrare in relazione con il figlio e questa diversità di approccio psichico e di maneggiamento, permette al figlio un’esperienza molto più articolata e “nutritiva” della realtà, favorendo quindi una costruzione mentale più ricca e sofisticata.

Riassumendo dunque: Dedicarsi in modo totalizzante ad un figlio nei primissimi anni di vita è naturale e funzionale allo sviluppo del figlio; ciò non deve però escludere il ritagliarsi del tempo per prendersi cura di sé come Donna e come amante nella coppia affettiva, per non perdersi come individui e come coppia, sviluppando viceversa un’alleanza co- genitoriale. La cosa migliore da fare è dunque stabilire dei turni e dei ritmi, possibilmente ricorrenti (i piccolini hanno bisogno di una certa ritualità) in cui mamma e papà si alternano nella cura del figlio, intervallati anche da brevi momenti in cui il piccolo è solo con soggetti terzi (nonni o tate) per consentire alla coppia di ritrovarsi periodicamente. La chiave dunque è nella “giusta misura”, in un equilibrio assolutamente personalizzato, nel quale la nuova famiglia (ri)trovi lo spazio per ogni cosa, in ordine di priorità (condivise).

Stia dunque tranquilla, suo figlio ha soprattutto bisogno di attenzione sincera e di amore autentico. Il resto verrà strada facendo, in una sorta di “danza” a tre, che permetterà al sistema famiglia di regolare di volta in volta il giusto ritmo e la “giusta distanza”…

In bocca al lupo dunque!




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Lunedì 13 Luglio 2020 | Crescere Insieme

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